Articoli di Giovanni Papini

1903


Piccoli e grandi giuochi
Pubblicato in: Leonardo, anno I, fasc. 4, pp. 1-3
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Data: 08 febbraio 1903


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Che abbiamo di meglio da fare in questo
basso mondo che giocare? Quanto a me
la vita mi sembra un gran gioco.
IBSEN, Piccolo Eyolf.


Se qualcosa potesse ancora meravigliare il mio spirito, fatto ornai scaltro tra i mille agguati dell'ideazione, io mi stupirei forse di una sola cosa: della profonda, continua e felice incomprensione degli uomini. Il mirabile accordo tra coloro che credon di comprendere e quelli che credon d'esser compresi è cosi commovente ch'io sarei quasi per credere all'armonia prestabilita dcl buon Goffredo Leibnitz.
   Ma la cosa, come non mi stupisce, cosi non mi attrista, che il non comprendere è forse il massimo onore che gli uomini, nella loro povertà, posson rendere a chi pensa. Ed è onore che fanno spesso, più spesso che non si creda, e di cui andrebbero lodati se fosse cosciente e voluto. Infatti l'unico mezzo per farsi intendere, subito e da tutti, è quello di metter fuor dei luoghi comuni, i quali son qualcosa di simile ai ritrovi pubblici del pensiero, chè tutti i filistei ci convengono.
   Per divenir popolari occorrono le grandi frasi ben vote e le grandi parole ben rimbombanti che fanno le spese delle dicerie democratiche e dei banchetti conservatori: Progresso, Giustizia, Umanità, tanti fischietti conosciuti che trovan dappertutto degli echi.
   Ma qual peggiore ingiuria che il divenir popolari!
   Essere qualcosa che ha i gusti dei più, e pronuncia le parole dei molti, ed è intesa dalla moltitudine e le serie d'arme o di bandiera, secondo i casi! Se io mi fidassi ancora a qualche antico Dio, quanto l'annoierei, con mille preghiere e mille offerte, perche mi scampasse da siffatta disavventura!
   Per fortuna io stesso son Dio, e più vero e potente di quel che non siano quei pallidi riassunti mitologici che nelle menti dei poveri di spirito fanno la parte dei lontani ospiti celesti; perciò in saprò ben liberarmi, se ce ne fosse bisogno, dall'insulto della popolarità e dall'onta della chiarezza. Ogni pericolo, lo confesso, non è ancora del tutto scomparso: talvolta il lucido dialettico positivista, amante di prove e di limpidezza, ch'io sono stato, per mia vergogna, in un passato non lontano, torna a tentarmi e sobillarmi e certe volte io cedo all'astuzia insistente di questo vecchio demonio e del suo beota famulus il senso comune.
   In questo momento, ad esempio, io sono in suo possesso e invece di racchiudermi nel mio spirito, ch'è insieme chiostro e fortezza, ove edifico i miei sogni e torco le mie saette, io vengo qui a far mostra di rivelarvi una delle ragioni píù profonde della mia attività: il giuoco.
   E malgrado le rampogne del mio me nascosto, ch'è ornai quasi prossimo all'ultima liberazione, io tenterò dirvi cosa intendo e cosa faccio per giuoco.
   Per fortuna io son salvo a ogni modo dalle conseguenze: io ho cacciato da me l'inutile debolezza del rimorso e chi non vorrebbe, una volta tanto, giuocare con l'idea di giuoco?

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   S'io fossi uno di quei filosofi dabbene che camminano colle seste e colle squadre e non movon passo senza mostrarvene il come e il perchè e vi squadernano a ogni pagina la loro brava definizione, io dovrei cominciare col definire il giuoco.
   Ma io non tengo ad essere un filosofo galantuomo e da


 
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vero masnadiero intellettuale mi permetto di fare a meno di complimenti. Chi ha il gusto di quelle piccole trappole logiche che si chiamano definizioni, se le può fabbricare in famiglia e son certo che gli piaceranno molto più della mie.
   E per chi non fosse neppur capace d'improvvisare una definizione non credo che ne manchino delle già fatte. Dacché lo Schiller e, dopo di lui, lo Spencer posero il giuoco come principio dell'arte, la parola, se non la cosa, ha fatto un po' di fortuna nella letteratura scientifica degli ultimi tempi e anche recentemente il Groos, con scrupolosità alemanna, studiava i giuochi degli animali.
   Ma al difuori dell'estetica e della psicologia comparata nè la parola nè la cosa hanno trovato buona accoglienza. Se le bische continuano ad essere affollate, se le lotterie pubbliche e non pubbliche continuano a far buoni affari, se nell'osterie popolari, nei salotti borghesi e nelle sale aristocratiche i giuochi più o meno stupidi continuano a far passare le serate ai maschi e alle femmine, il giuoco, inteso in tutta la sua profonda ricchezza, non è stato ancora elevato agli onori di principio ispiratore dell'intera vita. Dirò di più: il giuoco è disdegnato e sospetto come qualcosa tra il fanciullesco e il delinquente, e non gode troppo le simpatie degli autori dei libri di testo delle giovini generazioni.
   «Il giuoco è riservato ai ragazzi.» pensano i comici della serietà «o tutt'al più agli artisti che sono anch'essi dei grandi fanciulli. Ma la Società, la Patria, la Scienza non son giocattoli: son le serie fra le serie cose, e ad esse occorre sacrificare ogni istante della vita, ogni forza del corpo, ogni pensiero della mente». E quelli che sanno il tedesco finiscono col citare trionfalmente il motto di Schiller: Ernst ist das Leben! Ma se voi siete un po' maligni (ed io ve l'auguro di cuore) datevi la pena di vedere un po' da vicino in che consiste il giuoco e comprenderete subito le ragioni di questo istintivo orrore degli uomini seri.
   Il giuoco è, anzitutto, qualcosa di libero e di spontaneo: giuocando non siamo soggetti a un ordine o ad un'imposizione: ogni nostro movimento è un mezzo scelto da noi per raggiungere un certo nostro piacere. Giuochiamo perchè ci piace giuocare, non perchè dobbiamo giuocare.
   Ora gli uomini hanno, per la massima parte, l'invincibile istinto della servitù e l'indomabile abitudine del solco tracciato. Essi non vogliono essere i padroni assoluti delle cose e lanciarsi all'avventura verso terre ignote, ma preferiscono invece servire in pace sulla terraferma.
   Dopo essersi foggiati degli strumenti, lo stato o la scienza che sia, invece di continuare a servirsene, cominciano, per un singolare oblio della loro opera, a servirli, e divengono, per somma vergogna, i servi di ciò che crearono per servirli.
   L'attività libera li spaventa, preferiscono le regole e i regolamenti, i pali indicatori e il compito imposto, e questo spiega il prodigioso sviluppo della burocrazia, e il sogno ancor più prodigioso di azienda universale, ove tutti finalmente avranno l'onore di essere impiegati dello stato.
   Il giuoco, che libera, almen per un istante, dalle cose e ci distacca da esse, mettendole al disotto di noi, facendone strumento di piacere, è troppo naturale che non piaccia molto a coloro che hanno bisogno di giogo e di guida.
   Il giuoco è spontaneità e creazione, è moto e prontezza ed è perciò proprio dei fanciulli e de' poeti, che hanno più vivo e fresco lo spirito. Per questo esso è inevitabilmente interdetto agli uomini seri, che sono persone posate e mature, o magari dei giovini che non conobbero mai la giovinezza. Gli uomini, se ben guardate, cominciano a prender le cose sul serio, cioè cessano di giuocare, quando son sulle vie della senilità e il pensiero affievolito è meno capace di creazione.
   Il giuoco è, per sua essenza, un rischio continuato ed è questa sua condizione che attira forse gli uomini, seccati qualche volta da questa vita piccina e pia.
   Ma in generale l'uomo comune non ama il rischio — l'uomo serio tiene al positivo e sfugge la bellezza del caso. Ognuno resta tappato nel suo covo e non vuole esporre nè la sua borsa nè il suo corpo — il grande ideale del borghese medio è il ventre salvo e la pensione a cinquant'anni.
   Chi s'arrischia in imprese strane e insensate, chi non ha il debito rispetto degli Dei del giorno, è un demente che pagherà il fio, del suo stolto ardimento. Ogni tanto, è vero, gli può accadere che scopra dei mondi nuovi e misteriosi, ma chi può assicurarlo? Nè gli atlanti economici nè i, giornali di un soldo ne parlano.
   Ci sono, è vero, degli uomini che arrischiano ancora, ma in loro il giuoco ha perduta la più bella delle sue accompagnatrici: l'ironia. Il loro giuoco, sia la guerra o la roulette, diviene qualcosa di serio e di tragico, e i volti impallidiscono e i reporters fanno dei telegrammi. Lo spettro austero dell'onore entra in scena e il giuoco volge in tragedia, con gran beneficio dei giornali quotidiani e delle anime sensibili. E in fin dei conti è proprio un gran giuoco arrischiare una vita, ch'è il più delle volte inutile e vuota, e dell'oro, che forse non si sa gettare in altro modo?
   Il giuoco, inteso com'io lo intendo, esige inoltre una doppia coscienza: il perfetto giuocatore, che conosce ogni accorgimento dell'arte, è colui che è, insieme, spettatore e attore che agisce e si guarda agire.
   Per parlare solo di nobili giuochi, nel metafisico che sta creando una Weltanschaung c'è l'uomo innamorato della sua idea e che cerca, con entusiasmo, di provarla e di sostenerla, e accanto a lui c'è quello che sa che tutte le sue costruzioni non sono che bei romanzi intellettuali che pretendono darci non la biografia del mondo ma la sua leggenda.
   Da questa duplicità deriva gran parte del piacere e della complessità del giuoco. Pensate ora un poco ai poveri uomini a cui è già tanto di peso un solo io. Essi sono così spaventati dalla loro povertà interna che non osano quasi mai intrattenersi con sè stessi e cercano tutti i modi di stordirsi in compagnia. Essi non conoscono che raramente la gioia divina dell'introspezione e si accostano più volentieri all'orlo di una rupe alpestre che sulla soglia della loro anima. Il loro piccolo mondo interiore è già per essi un fardello troppo pesante perchè possano raddoppiarlo.
   Bisogna però compatirli se non fanno troppo buon viso al giuoco: non tutti posson permettersi un così incomodo lusso.
   Ma c'è più ancora: il giuoco è, quando s'intenda il vero giuoco, non quello ch'è divenuto professione, qualcosa d'inutile, di non necessario.
   Quando noi abbiamo ben giuocato non c'è un chilometro di ferrovie di più nè un analfabeta di meno ed è a tale stregua che i nostri meccanici giudicano oggi dell'aumento della civiltà. Il giuoco, per esser veramente tale, dev'essere disinteressato ed è per ciò che io posso riportare al giuoco l'arte, alla quale tutti, o quasi, riconoscono un carattere disinteressato, e la scienza, la quale, come mostrava il Milhaud, non fa mai tanta strada e non è così feconda di novità come quando non pensa alle applicazioni pratiche che ne posson derivare e si svolge come pura attività libera dell'intelletto.
   Invece gli uomini comuni non pregiano ormai che ciò che dà loro un'immediata utilità materiale, che serve a empire il loro sacco, a riparare i loro corpi, a prolungare la loro vegetazione. Dinanzi a un'opera di bellezza, a una creazione logica essi domandano: a che serve? Ed amano tutt'al più i poeti che cantano le distese de' pingui piani e le glorie fumose dell'officine. E non sanno che ciò che basta a dare un attimo di gioia, al


 
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difuori di ogni necessità animale, è ciò che v'è di più necessario per gli spiriti non volgari, che sceglierebbero piuttosto di non perdere una bella idea o un bel verso che tutte le vacche e tutto il carbon fossile del mondo.
   Considerata dunque la servitù ed angustia mentale degli uomini seri, piccoli o grandi che siano, non c' è da meravigliarsi che il giuoco sia loro sospetto e che limitino tutte le loro tendenze giocatrici a una partita a tarocchi o ad un ricevimento di cerimonia.
   Essi si scandalizzerebbero, forse, sapendo che c'è chi tiene tutte le attività, che loro son care come deità intangibili, per giocattoli più o meno divertenti, destinati, volta volta, a rendere più dolce la vita interna e più sopportabile il contatto degli uomini.
   Io appunto che ruppi ogni collare, e dimenticai la finzione del rispetto e so vivere solo fra gli altri, ho fatto del divino giuoco la ragione ultima della mia vita.
   Tutto ciò che per gli altri è la fede e il sostegno dell'esistenza non è per me che uno strumento dal quale cerco estrarre la massima gioia. Ogni cosa mi serve, a nessuna servo, — e invece d'impormi un dovere o un'illusione io scelgo un piacere e un passatempo. Così mi libero dal tedio della serietà e dalla tristezza del disinganno.
   Non mettendo in niente la mia fede piena, di niente mi stupisco o mi attristo. Attraverso il mondo io non mi sento a niente legato, ma tutto cerco di trarre a me: della mia vita io faccio il mio capolavoro. Niente mi domina perchè in niente ho riposto la mia vita — ma io domino su quello che scelgo, perchè me ne giovo come trastullo.
   Tutta l'arte della vita, ch'è per me la scienza suprema, consiste nello scegliere i più bei giuochi, i passatempi superiori. I giochi comuni hanno il difetto di essere troppo esteriori, materiali e poco complessi — perciò io preferisco infinitamente l'arte o la filosofia agli scacchi e al foot ball. Fra gli innumerevoli indici di libri che non farò mai ne conservo uno che sarebbe un manuale di giuochi intellettuali e ci dovrebbe essere un capitolo sulla previsione del futuro, uno sulle costruzioni metafisiche, uno sui sofismi, un altro sui metodi migliori per «epater le bourgeois» e via dicendo. Questa mia preferenza per i giuochi d'idee non mi toglie pero altri modi di vita che non sian filosofici: anzi il giuoco apre la via maestra della varietà. Colui che veramente ha fede in ciò che fa e si propone un grande o piccolo fine, è costretto alla costanza: ogni uomo di pura azione, sì intellettuale che materiale, è necessariamente monoideista. Togliere un pò di tempo alla sua opera, abbandonare il suo compito, gli parrebbe peccato senza nome. La sua fedeltà l'imprigiona.
   Invece per colui che giuoca grande è la facilità del cambiarnento e poiché egli non è attaccato a nessun servigio ma tutto rivolge a servigio di sè, niente gli impedisce di mutare, ove gli piaccia, lo strumento e il diletto.
   Non si rinchiude in un sole mondo, non canta una sola canzone, non vive una sola vita — ma passa da uno a un altro giuoco, da uno ad un altro strumento, dal silenzio mistico della vecchia cattedrale alla calma gelida del laboratorio nuovo dalle formalità della vita pratica e familiare al godimento della creazione e dell' intuizione.
   Ma da questo che dico non vorrei che si confondesse la perenne attitudine al giuoco con quella dottrina del dilettantismo che ebbe la sua massima fortuna in Francia tra il 1880 e 1890, ebbe i suoi massimi rappresentanti in Bourget e France, e vanta a suoi santi patroni Wolfango Goethe ed Ernesto Renan.
   Per essa tutta la vita consiste nel cercar di comprendere, di riprovare tutte le sensazioni, tutte le vite, tutte le gioie, e nel contemplare in disparte tutte le azioni degli uomini e tutti gli aspetti delle cose. Ma codesta dottrina presuppone l'impossibile e abiura la personalità: crede di comprendere e di rivivere la vita altrui mentre ogni penetrazione psichica è inconcepibile e ogni stato attivo non è completo senza la fede — vuol arricchire l'uomo e, per vano desiderio d'indistinta universalità, per la brama insaziabile di bere a tutte le coppe, di salire tutte le cime, toglie all'uomo ciò che ha di più prezioso, il proprio me profondo, che valuta e sceglie. Se il mondo è, come suona una vecchia metafora, una tragicommedia, non bisogna illudersi che vi possano essere degli spettatori.
   «Poichè io vivo debbo agire» esclama l'honzunciths del Faust, e invero ogni istante di vita può avere incalcolabili conseguenze. Anche il non agire, anche la solitudine, come ha mostrato Anatole France, in un dialogo delizioso, può modificare il corso delle cose umane, può essere causa di variazioni imprevedibili.
   Perciò il dilettante che s'illude di contemplare gli altri non è che un attore incosciente che si riduce più volte a far la parte di paggio mentre crede di tenere in mano i fili della prima donna e del padre nobile.
   Piuttosto, poichè bisogna recitare a ogni modo, che gli attori sappiano di esser commedianti e nulla più, che sian coscienti, a «qu'ils jouent des pièces» piuttosto che prende sul serio gli elmi di cartapesta e le avventure del protagonista. E soprattutto che cerchino di mutar repertorio e d rinnovare il guardaroba, chè siamo ormai stanchi delle vecchie commedie e dei guardinfanti appassiti. Le vecchie tirate melodrammatiche sulla giustizia e l'amore che facevano sgocciolare gli occhi delle nostre nonne non son più fatte per noi, e i soliti drammi di cappa e di spada, a base di sangue e di sentimento, ci fanno sorridere. Mentre i commediografi e drammaturgi si sforzano di rinnovare in ogni maniera il nostro teatro di prosa e, in mancanza di meglio, cì portano le cliniche e le preture, il gran teatro del mondo non accenna troppo a cambiare. I vecchi figurini e i vecchi stracci, malgrado i nomi mutati, son sempre i dominatori del palcoscenico.
   Del resto questa borghese monotonia è cosa che mi affligge mediocremente da che io posso, in me stesso, provocare dei meravigliosi mutamenti, sol col cambiare i punti di vista e i piani di conoscenza. Mentre nel piano puramente e strettamente gnoseologico io sono monopsichista, nel piano della scienza comune e delle relazioni sociali, che sono tutti e due fondati sullo spazio, io ammetto l'esistenza di altri spiriti, di altri esseri al di fuori di me, coi quali parlo e sui quali agisco.
   Ma parlando agli altri e agendo sugli altri io non affermo gnoseologicamente la loro esistenza personale, indipendente dalla mia, ma faccio niente più che una concessione temporanea al senso comune, per certi miei scopi particolari.
   Giuocando con gli altri io non faccio altro che agire sul mio avvenire, prepararmi dei piaceri futuri, che deriveranno dai miei ricordi più ricchi e dalle loro reazioni più o meno previste.
   E cos'è dunque, diciamolo pure fra noi, questo nostro «Leonardo» se non un bel giuoco intellettuale, breve e piacevole come tutti i giuochi, e che ha già incominciato a provocare delle graziose reazioni di cretinismo e di volgarita?
   La partita è già bene avviata e n'abbiamo già tratto un bel profitto di gioia.
   Forse, in avvenire, noi intraprenderemo altri giuochi più proficui e men dolci di questo e, se le regole del giuoco lo imporranno, non avremo repugnanza a indossare il grigio mantello della serietà.
   Ma sotto le melanconiche apparenze di un artista pensionato o di un filosofo ufficiale vivrà sempre in noi il piccolo gaio troll che anima la nostra giovinezza e attraverso le gravi parole e le formule d'uso udremo ancora e per sempre il riso profondo dell'eterno giuocatore.


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